Uno dei bisogni primari dell’essere umano è quello di essere accolto. È un bisogno di calore, affetto, protezione, riconoscimento ma è anche qualcosa di più basilare, una necessità della psiche di collocarsi in uno spazio, contenuto, per venire in essere.
È famoso l’esperimento di Harlow, nel quale una piccola scimmia di pochi mesi veniva posta di fronte a due manichini: l’uno in ferro e plastica recava, in un arto, un biberon pieno di latte, l’altro privo di biberon ma ricoperto di materiali morbidi a simulare la pelliccia. Si vide che la scimmietta passava la maggior parte del suo tempo vicino o attaccata al manichino di peluche e si avvicinava cautamente a quello in ferro solo per il tempo della poppata (contrariamente a quanto ci si aspettava secondo della priorità dei bisogni fisiologici su quelli di sicurezza), per poi riparare nuovamente dal surrogato morbido.
Un tessuto soffice è ben poca cosa comparata al caldo abbraccio di una madre reale (e possiamo certamente interrogarci sull’eticità di certi esperimenti), ma quel contatto, attraverso cui la scimmietta poteva tenersi stretta a qualcosa, piuttosto che trovarsi nutrita ma senza calore, valeva come una piccola rassicurazione.
Stringersi a qualcosa è un’azione che coinvolge tutto il nostro psico-soma nella ricerca attiva di una protezione. Anche “accogliere” nella sua etimologia viene da ad “verso” che implica un’apertura all’esterno e colligere, ovvero “cogliere, stringere in un fascio (ciò che prima era disseminato in uno spazio più ampio), raccogliere”. Accogliere ha dunque a che fare con l’offerta di un contenimento, ed “essere accolti”, al passivo, rimanda al godere di uno spazio dove poter stare stretti a sé, raccolti.
Quando questo spazio interiore è sufficientemente concentrato da non essere dispersivo e sufficientemente arioso da permettere agio di movimento, i processi psichici si mettono in moto in un senso vitale, organizzato, proprio come accade all’embrione e poi al feto nell’utero materno.
L’ascolto empatico in psicoterapia ha proprio questa funzione, rappresentare uno spazio, vuoto di giudizio ma ricco di calore, dove i vissuti emotivi connessi alle parole trovino le condizioni per esistere.
Molto spesso consideriamo noi stessi come l’insieme di ciò che pensiamo e ciò che diciamo, ma pensieri e parole sono solo due facce del prisma sfaccettato che è la nostra personalità e ciò che dobbiamo stringere a noi, per sentirci accolti, non sono le percezioni superficiali e volubili che costellano la nostra giornata, spesso così densa di impegni, ma le emozioni che stanno sotto e costituiscono le correnti più importanti del nostro sentire.
Ricordo che una volta un giovane paziente passò una buona parte della seduta a raccontarmi in modo concitato di tutte le cose divertenti che aveva fatto nel weekend. Io cercavo di ascoltare e di seguire il filo psico-logico del racconto cercando di capire dove ci avrebbe portato ma ad un certo punto mi resi conto che quel parlare non andava veramente in una direzione, era un escamotage, qualcosa con cui il paziente ci stava distogliendo da qualcosa d’altro. Gli chiesi a bruciapelo: “da cosa dobbiamo fuggire oggi?”. Con un po’ di imbarazzo e una risata di sollievo, mi rivelò di aver provato vergogna quel giorno per aver fatto un errore sul lavoro per cui era stato rimproverato e da lì cominciò a raccontare. Se non avessi interrotto il flusso delle parole facendo affiorare il vissuto negativo, la vergogna avrebbe potuto covare e prosperare sotterraneamente dando alla persona la sensazione che davvero “è deprecabile l’errore” e che non vale la pena mettersi in gioco. Molte emozioni (che reputiamo negative) si alimentano in questo modo: si nascondono e trovano conferma della loro negatività dal fatto che la coscienza non le vede, né le interpella.
È per questo motivo che non basta l’ascolto empatico in psicoterapia ma serve anche una costante esplorazione dei contenuti psichici, sostenuta dal sapere incarnato del terapeuta e dalla curiosità del paziente verso sé stesso, affinché ciò che viene accolto sia ciò che è urgente per la persona, e non i meccanismi che cercano di nascondere ciò che duole. In questo modo, dal mosto ancora torbido delle esperienze vissute si inizia a distillare un succo sempre più limpido e trasparente, ovvero le emozioni autentiche che danno sostanza alla nostra persona.
Esplorare significa andare a guardare dove non si è mai osservato, seguire le tracce di esperienze recenti per risalire a emozioni più profonde, scoprire aree nuove della psiche, comprendere con attenzione il presente e individuare strade per il futuro, ma non con il puntiglio del cartografo, cui non può sfuggire neanche un dettaglio, ma con lo spirito del viaggiatore che segna le rotte percorse e sogna le rotte ancora da percorrere.
A cura di Costanza Ratti per Fondazione Esperia